Nevermind

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Il fegato si riproduce

Se dovessi dichiarare l’amena condizione ideale, direi camminare, sarebbe perfetto se inventassero una aggeggio in grado di registrare i pensieri all’uopo, solo se richiesto, solo in silenzio. Ci eviterebbe lo strazio della trascrizione e si potrebbe decidere di perdere dei frammenti solo dopo averli vagliati una seconda volta. Ho sempre preferito elaborare sperimentando piuttosto che valutare una precisa scelta riflettendo, quando mi sono imposta di essere meno precipitosa sono stati i calcoli a fregarmi piuttosto gli impeti, sintomo che forse è inutile accanirsi a volersi cambiare. Vedo ancora come un affronto aperto ”l’inconveniente di essere nati” come scrisse Cioran, non per l’esistenza in sé, sempre deludente per tutti, quanto perché a tirare le somme siano sempre i posteri, quelli che hanno vissuto un’altra vita che non è la nostra. Le fallacie della trascrizione di cui sopra.
Per vivere una vita incontestabile si dovrebbe perseguire l’intento di non vergognarsi della propria difettosa autenticità, nel mio caso l’elegiaca tendenza al melodramma repressa in un dissacrante cinismo, la miglior figura antitetica per definirmi credo rimanga il gelato fritto.
Soprattutto: vivere con segreta ma consapevole compiacenza il proprio meritatissimo esilio trascendente per le due uniche strade percorribili: continuare ad illudersi o essere coscienti e imparare a felicitarsi della disillusione. Sto lavorando sulla seconda, coinvolgendo adepti come fa Lotta Comunista con le matricole.

Ho stilato tutto questo mentre affrontavo a piedi il crepuscolo del solstizio, ho visto mio nonno seduto sotto il kiwi con la sua radio a batterie sintonizzate su una frequenza che comunque non ascolta, non so quando, ma un giorno non lo vedrò più seduto lì e tutto sarà accaduto senza che io possa fare nulla, come tutte le case in vendita sulla mia via: penso sempre che qualcuno abbia abdicato la propria vita in tangenziale pur fare quello che gli va, per liberarsi finalmente dell’angoscia di dover cambiare filtro al Folletto.
Quando i
nvece sono le ruspe a scavare ed erigere case, mi auguro che gli anni non compromettano le dighe e le casette della nostra infanzia, che le schiere di case non colino su ciò che pensavamo introvabile, spero che un altro bambino possa trascorrere la mia stessa rustica infanzia a pericolare. E da grande, per gli ineluttabili inconvenienti della vita sopra elencati, questo ex-bambino parta per portare quella stessa spensieratezza altrove, prima che qui si sciupi nella desolazione di vedere tutto troppo piccolo solo da lontano.

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Agire prima dell’uso

Credevo che il mio vano caldaia fosse infestato da bagarozzi invece gli esperti entomologi che abitano casa mia mi hanno garantito che si tratta di grilli. La distinzione non è facile, anche perché il mio ultimo ricordo dei grilli risale a quando da bambina importunavamo le loro case con i bastoncini: non uscivano dalla tana e smettevano di cantare. Invece ora sono loro a sotterrarsi nella mia cantina, dispettosi, come sempre, tacciono e si mimetizzano da bagarozzi. Mi ha sempre affascinato il mondo degli insetti, l’irreplicabile architettura delle loro dimore, e anche la circolazione aperta che va direttamente al punto, senza tante fermate nella sede indigesta dei sentimenti. A proposito di grilli, mi dissocio da ogni movimento populista mettendo in gioco la mia fervida diffidenza, i miei inutili studi umanistici hanno come deriva irreprensibile che l’eleganza della forma sottenda una buona strutturazione della sostanza. E come diceva il buon Dante: “Non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato”. Mio malgrado sono abbastanza disillusa da non credere alle novità un po’ raffazzonate e l’unico accordo possibile fra grilli e baragozzi è il bianco candore del disinfestante. Si premia l’impegno ma dalle banane ai tecnici al mercato della frutta io preferisco un’altezzosa astinenza. O come sostiene una cara amica, piuttosto che trovare il mio partito senza la maggioranza parlamentare perché ho optato per il voto utile, meglio votare un gran cazzo che occupi la scheda intiera, che almeno ai seggi si fanno una risata. Che non c’è niente da ridere, fra l’altro, ma almeno le risa non ce le rubano.
Non volevo nemmeno parlare di questo, perché per ora l’unico utile spiraglio di cambiamento viene da sassi e da forche, dai roghi e dalle cariche, ma sappiamo bene che non c’è alcuna possibilità che accada. Si potrebbe optare per un referendum per ogni cazzata così almeno la colpa è della massa e non più della casta. Ma anche questa svizzera soluzione non è contemplabile, perché come giustamente fecero presente gli ODP: “il referendum sul divorzio e non capivamo perché, se vinceva il No il divorzio c’era, se vinceva il Sì non c’era.”
Credevo di essere attorniata da un brulicante via vai di bagarozzi, ma poi inspiegabilmente cominciarono a cantare rivelando la loro identità di grilli. L’animo delle persone è molto più profondo di quanto la loro brutta corazza lasci intendere, e i nidi che vengono a deporre hanno bisogno dell’incubazione della nostra fiducia, ancora per un po’ non erosa dalla certezza di non essere muti e mutati verso il lato mutabile. È semplificare, la vera svolta, perché nessuna base esiste se non nella sua abbacinante formula semplice; e tutto ciò rende comprensibile ogni complicazione.
Ho scoperto che si possono mangiare i fiori di sambuco e acacia, pastellati, fritti e serviti. Sono nauseabondi ma mi è sembrato comunque poetico, soprattutto per i commensali, perfetti sconosciuti che dopo avermi proposto una gita, uno di loro, quarantenne, ha aggiunto: “bon, fatta, chiedo la macchina a mia madre a andiamo” .

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Maggio 15, 2012 · 8:06 PM

Vorrei non sapere più nemmeno dove abiti

Se è vero che al mondo è pieno di psicosi, io ho dei problemi coi miei analizzatori cerebrali. Se qualcuno non capta la mia attenzione, guardo, sento o tocco qualcos’altro. Me lo dice il cervello.
In questi giorni le mie orecchie hanno captato tali puttanate che il mio cervello non ha potuto che farmele notare:

– Dove faranno le Olimpiadi dopo Londra?
– In America.
– Credevo fossero a Rio.
– Beh è in America
– Sud America
– Sì vabbè, anche perché a Vancouver le avevano già fatte.

 Un tizio parlando di una ragazza:

– Dovevi vederla: un telaio da paura.

Carabiniere a un amico fattissimo:

– Perché ha agli occhi così rossi?
– Ah, ehm, il vento. Eravamo in terrazza a fumare.

Un quindicenne alla sua fidanzatina:

– Mi manchi sempre, tranne nei weekend.

Ah, sono diventata istruttoria di nuoto, per cui ho un nuovo sogno di gloria: lavorare un’ora al giorno per un ricco obeso ‘mericano nella sua villa con piscina. Se conoscete qualcuno, meglio che nei quattordici ettari circostanti non ci siano vicini.

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Dummy – Dammi

Toh, chi l’avrebbe mai detto che anche alla Lega ce stava la corruzione. Io ingenuamente, e con molta sincerità, ho sempre creduto che il patto tra Bossi e congiunti fosse una specie di circonvenzione d’incapace. E invece anche agli stolti piacciono i soldi. Credo che siano l’unico metodo per mettersi d’accordo tra dissimili, a grandi categorie semplificative: stupidi-intelligenti, belli- brutti, buoni-cattivi, padroni-subalterni, giovani-vecchi e naturalmente ricchi-poveri, che ricordiamo è anche una band.
Ai giornali manca Silvio, è evidente. Mi immagino l’Informazione come un grande server che contiene tutti gli archivi del passato e che escano le notizie in
base al livello d’indignazione che si vuole iniettare al pubblico. Siccome hanno finito i file con Silvio e le sue troie, il server aggiorna: fate uscire lo scandalo Lega. Lacrime, comizi, resistenze, scuse, streghe, immagini di repertorio di quelli che non solo hai sempre evitato di considerare esistessero, ma pure ti accorgi di averli visti invecchiare; tutti questi anni sono serviti ad assimilare la loro presenza come un dato di fatto, come sei abituato a vedere in casa un cugino storpio, depresso o alcolista: eh cosa vuoi…Umberto è così. Tra le nauseabonde notizie scandalo, il commento migliore è stato questo:

http://ze-violet.tumblr.com/post/20896587886/lol

Ora mi fanno pure un po’ di tenerezza gli ormai sbiaditi cartelloni nordwide in cui la Lega accusa Monti di rubare soldi al nord, con quella gallina mal proporzionata che caga uova d’oro che rotolano verso sud. Non solo per questa ragione, ma invidio il Meridione che ignora quali obbrobri ci si trovi a lato semaforo.
Siccome la vita è questa e l’altra vita è questa, mettiamo da parte i giudizi divini che non ci saranno, io non spero che tutti, tutti quelli là che stanno in Parlamento come al mercato rionale, non muoiano tra atroci sofferenze, ma vorrei che quel lumicino di coscienza che dovrebbero avere si incendi. Che quel pesuncolo sul cuore diventi una montagna di uranio che impedisca loro di pensare a null’altro se non al peso stesso. Perché è proprio per questo che siamo tanto spompati, ci manca la leggerezza di fare le cose più imprudenti. Attenzione, non rubare millemila milioni di dollari, ma anche ignorare quel cazzo di cartellone con la gallina e avere la limpida certezza di dichiarare “non mi riguarda”.

 

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Momenti perfatti

Dovremmo crescere i bambini insegnando loro che non esiste la felicità. Esistono dei momenti perfetti, come diceva il buon Jean-Paul, dei momenti in cui ci sfrigola dentro un immotivato tepore, e ti viene quella ridarola che non è nient’altro la prima uscita che trova il corpo che dentro ride di nascosto. Il momento perfetto, per me, è quasi sempre collegato a qualcun altro, fosse anche un passante a caso. Nei momenti perfetti da sola, c’è spesso una canzone, un pianto, un ballo di foga. Il topos della natura mi porta a ricordare altri momenti perfetti vissuti con gli altri, che al di là di tante scelte di vita sono l’unico modo che dimostra la nostra esistenza. E prova a noi che viviamo più esistenze contemporaneamente.
Probabilmente ho capito ora il motivo per cui i miei si impuntassero nel ribadirmi che in pizzeria avevo a disposizione una sola lattina di coca cola, se l’avessi finita prima che arrivasse la pizza non ne avrei avuta un’altra. I bambini che non impareranno mai a riconoscere un momento perfetto sanno che possono ordinarne due, di lattine. E magari lasciare la seconda a metà.
I momenti perfetti dovrebbero proprio sostituire la parola felicità, dovrebbero essere una cosa non materiale che però si impara a possedere, e più ne sai riconoscere e più ne possiedi, di momenti perfetti. Bisogna imparare che i momenti perfetti non possono essere tutti, che finiscono, e che tante volte li riconosci una volta trascorsi.
Se i bambini sapessero da subito che non esiste la felicità, creeremmo un mondo senza consumismo, antidepressivi, rivalità e forse, anche se non è mai esistito, senza ingiustizie. Fin’ora invece abbiamo contribuito a creare un’alcova di ansie e insicurezze in cui le novità più acclamate sono le invenzioni che eliminano del tutto la fatica. Io ancora non sono riuscita ad accettare le rotonde come sistema sfoltitraffico.
Bisogna dire ai bambini che esiste dio, ma che possono chiamarlo come credono e che soprattutto nessun dio sarebbe così terreno da sputtanarsi con casi editoriali altrimenti detto “libri sacri”.
Bisogna dire ai bambini che la sofferenza è l’anticamera dei momenti perfetti, per quell’antico contrappasso secondo i quali ci accorgiamo di stare bene solo dopo aver passato un’invalidante pena. Bisogna dire ai bambini che ogni luogo ci insegna qualcosa, ma che le radici sono più forti, anche se si diramano dove non possiamo vederle, e trovarle è un altro momento perfetto. Bisogna insegnare ai bambini la misura, tranne che in una cosa: il pensiero e tutto ciò che lo veicola. Il pensiero non è la prova che esitiamo, ma la concretezza della nostra immaterialità.

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Generazione batterica

Previa firma che guasta la naturalità dei rapporti, ti trovi a cena “coi colleghi”, con cui si è sempre cauti nello scendere sul personale, per cui si finisce a parlare di lavoro o a malignare sugli assenti. Si è già fortunati se si condividono le stesse idee politiche, già più difficile i gusti musicali, quasi improbabile le esperienze, impossibile la façon d’être. Al lavoro si recita la parte che gli altri si aspettano, derivata dal tuo profilo professionale che solo di striscio corrisponde al modus operandi di altre situazioni. Il travaglio, credo, sia entrare nei costumi di scena, senza lamentarsi se ci stringe in vita o se avanza spazio tra l’orario d’ufficio e tutte ciò che abbiamo messo in piedi prima di sederci su quella sedia. Pe quanto non sia il lavoro della mia vita, sono stata fortunata a capitare in un posto in cui nessuno ha ancora l’acidità di creare quelle beghe d’ufficio che fanno andare in esaurimento i più deboli. Anche nell’ambito culturale in cui lavoro, è difficile evitare le parole: profitto, finanziamento, patrocinio. Il tariffario excel con i conti fatti ha l’unico vizio matematico di non premiare le buste paga, togli benzina, togli vizietti, c’è poco da masticare seccature, va così per tutti. Ammiro quelli che affrontano il lavoro con abnegazione, o meglio, quelli che sono entusiasti di lavorare il sabato fosse pure a tagliar legna. Mi sono misurata con così tanti estranei nell’ultimo periodo da essermi stupita del loro stare al mondo, talvolta talmente inquadrato che pensavo di essere io quella che rifugia nella sua voluminosa torre di libri per trarre vantaggio da ciò che non cambia, che nonostante le ristampe e i curatori, gli scritti si mantengono integri nell’espressione. Senza incoerenza. Se soldi chiamano soldi, prima di ricevere “la chiamata” ho investito del danaro per conseguire il mio brevetto d’istruttrice di nuoto. Il corso prevede principalmente un lavaggio del cervello sulla sicurezza in piscina, e un tirocinio in cui come un’ombra spettrale devo stare dietro a ragazzette di dieci anni più giovani tutte incredibilmente grassocce e antipatiche, che nemmeno si presentano o ti fanno mezzo sorriso, come andassi là a portar via loro il lavoro, neanche avessero qualità che non si possono acquisire con un corso aperto a tutti, purché tu sappia fare bene dorso e stile. Poi ti rendi conto che stai invecchiando perché non riesci più a dormire fino a tardi come hai sempre fatto, per quanto riguarda lo scarto generazionale, le diciottenni di oggi credono che, in mancanza di specifiche qualità, basti fare un pompino per avere un lavoro. Quando ho chiesto ad una specie di figliadiamicidifamiglia, cosa volesse fare dopo il diploma, mi ha detto che le piacerebbe una facoltà che però è fuori mano. Bene, dico io, così te ne vai di casa. Ma no, risponde, non voglio perché mi fa schifo abitare con altra gente. In treno e in corriera non appoggia mai la testa, al cinema non ci va, sempre per i batteri sugli schienali. La fotografia mentale che mi è balzata in testa pensando ai miei anni di studenta mantenuta, è stata subito il cartello sopra il water per invitare i maschi a pisciare seduti, e il pavimento che fu bianco per diventare grigio fuliggine dopo poche settimane. E le migliori dormite, sui treni zozzi, talvolta anche con bava sul vicino. Ti fai dei nuovi amici, le dico, fotografia mentale delle innumerevoli pasta rasta che ci siamo fatti con ingredienti quasi scaduti. Amici? Puah! Io non ho amici, non ne ho mai avuti. Se penso che esistano persone che si priveranno di viaggi scomodi e luridi, della soddisfazione di farsi una doccia dopo che ti sei impregnato di polvere di strada, che hai mangiato con le mani e hai toccato corrimano di lazzaretti. Ci sono quelli che per ragioni a me incomprensibili si privano del piacere di farsi una scopata a caso in un posto che non sia il letto, o che non hanno mai avuto un cane, un gatto, un animale peloso o piumato che non segue il regime di pulizia di noi altri umani, che leggono i libri della biblioteca coi guanti in lattice. Ecco, io provo una pena incommensurabile per queste persone, soprattutto se giovani. Provo pena ma allo stesso tempo mi rallegro che non ci incontreremo mai, che la loro batteriofobia li ammalerà di noia e fisime inventate, e moriranno prima di essersi resi conto di aver vissuto, probabilmente mangiati dai virus alimentati dalla paura del contagio.


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La Pub c’est du poubelle

Sono certa che mio nipote, che ha tre anni e non è ancora nato, sia in grado di concepire pubblicità migliori. Per esempio la spazzatura Chiambretti, che manda in onda trailer di altri a causa dei tagli del governo tecnico. Io direi: se il mio datore di lavoro vendesse le frequenze di rete quattro, si concedesse un giro eterno in tutti i gironi danteschi, non dovrete più subirvi il mio trailer né vero né finto, perché anch’io merito la soppressione!
La Fiat è in crisi? La soluzione è sbaragliare la concorrenza con pubblicità subliminali che suggeriscano di comprare auto da altre case automobilistiche. Lo slogan della Punto è: “Ci piacciono le Mini, ma sono se indossate da belle ragazze/ questa è la Fiesta che amiamo!”, con video di un chiringuito allestito in uno studio di Cologno monzese.
Risparmiamo questi soldi, non dico di destinarli ai cassintegrati che chi se li caga sti poveracci, mi bastano 100 euro e ve la penso io una pubblicità, pensavo a:
Declassamento? Passa da BB a classe A, con Punto!
Chiambretti night? Avrei preferito per davvero fosse un western.
Costa Crociere invece ha dei copyright persino profetici:

 

 

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La mentira

Voi ben sapete come io sia riluttante ad inoltrarmi nel terreno dell’attualità. Sono così passatista da cercare di imparare a vivere trovando riparo nei grandi classici. Valorosi o onti possono fare una miserabile fine, ma il Giusto, colui che racconta, sa bene da che parte condurre il lettore. Che si tratti di un bieco edonista, di un omicida seriale o di un pavido prete, ci è concesso schierarci dalla parte di chi ci somiglia di più sulla base degli elementi forniti e, trattandosi di un’opera finita, ciò che sappiamo è sufficiente per scegliere da che parte stare.
Il motivo per cui in questo spazio indolente faccio fatica a parlare di quello che elaboro informandomi, è che non mi riconosco in nessuno, non mi riesce di schierarmi da nessuna parte, non trovo l’onore, la vergogna, l’amore, la battaglia delle giuste cause.
Prendiamo come esempio assolutamente trascurabile l’imminente uscita del Mentana dal suo faziosissimo Tg. L’Enrique ha condotto un telegiornale che aveva l’unico vantaggio di essere preparato da giornalisti arguti e professionali. La linea editoriale, grazie a dio, ci risparmiava i fotogrammi di Amanda Knox al supermercato indecisa fra due pacchi di cereali. Il filo conduttore del Tg, o trama del romanzo, ha un protagonista principale, Silvio, ma i più arguti lettori si accorgeranno che il nostro giornalista mette al centro soprattutto l’astio e l’amaro verso Silvio: Enrique prova un odio venerante per il suo aguzzino. La storia prosegue come una guerra personale allo sputtano, Enrique persevera nel cercare il dettaglio tra i vizi di uno che vorrebbero morto in milioni, e la sua battaglia comincia a diventare patetica. Deus ex machina, il Silvio sloggia e, colpo di scena, per una cazzatina mascherata da obbligo deontologico, l’Enrique se ne va in esilio volontario mentre sappiamo tutti che la sua vita non ha più senso se privata del suo nemico. Ce l’ha detto lui stesso. C’è un messaggio didascalico in questo libercolo? Ci si riconosce in ben pochi figuranti, piuttosto ci si fa un’idea ottimista di quello che sta dietro: una redazione che comprende il crollo psicologico del capo, da subalterni dimostrano la loro finta devozione per il padrone, fingono di giustificare i peccatucci ridicoli in cui è incappato un uomo così deciso.
Loro, da anonimo sfondo, scusano la sua debolezza, a metà strada tra l’eccesso di zelo e la stanchezza di lasciare tutto con una scusa qualsiasi.
Poi l’Enrique rettifica, gli viene in mente il periodo di astinenza da schermo tra mediasette e La settemedia e ci ripensa, torna, risolto, sto bene.
Fino al capitolo dell’udienza finale dei processi Silvio, gli unici rivolgimenti del libro sono i sondaggi del lunedì del Tg7. Almeno fino alla prossima imperfezione della prima-donna mezzo-busto, quella che taccia tanto il protagonismo per i propri utili ma alla fine cade proprio nella stessa trappola.

Fine.

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